Fidei Communio 2025/1

Contributi di Alessandro Clemenzia, Paul Gilbert, Cecilia Costa, Domingo García Guillén, Manuel Palma Ramírez, José Granados, Roberto Regoli, Andrea Riccardi

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Fidei Communio 2025/1

Roberto Regoli, Andrea Riccardi, Alessandro Clemenzia

FORUM – J. Ratzinger, Opera omnia, vol. 8/1: Chiesa: segno tra i popoli, LEV, 2021

♦♦♦ La Chiesa non è questione di democrazia

di Roberto Regoli

Il volume che qui si presenta riguarda solo una parte dell’ecclesiologia di Joseph Ratzinger, in quanto il secondo tomo deve ancora vedere luce nell’edizione italiana. Pertanto le considerazioni condivise possono essere ritenute parziali, ma comunque significative perché il pensiero ratzingeriano è lineare nell’impostazione e piuttosto coerente nei contenuti, così che nel tempo si muove come una spirale ascensionale che nel riprendere un argomento non solo lo conferma, ma lo approfondisce e rilancia.

Un elemento significativo della riflessione ratzingeriana presente nel volume ha a che fare con le esigenze di riforma e ripensamento della Chiesa che si hanno all’interno del cattolicesimo, soprattutto in quei settori ecclesiali che danno ampio spazio al confronto con le organizzazioni sociali umane, propriamente con le istituzioni politiche. Non a caso nella prefazione del volume il cardinale Gerhard Ludwig Müller, teologo e già prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, individua uno degli assi della riflessione nel rapporto che intercorre tra «l’attuale sentire democratico e il ministero esercitato nell’autorità di Cristo».1 La riflessione di Ratzinger, infatti, si deve confrontare con le sfide della storia che lui vive.

♦ 1. Contesto storico

La vita della Chiesa in epoca contemporanea si è dovuta confrontare con cambiamenti filosofici e politici rilevanti, che hanno questionato la sua identità o almeno le sue modalità di essere nella storia. Le nuove esigenze del liberalismo e la nascita dei sistemi costituzionali hanno interpellato le strutture della Chiesa, la sua forma nella storia. Si pensi alla celebrazione del concilio Vaticano I (1869-1870), all’interno del quale si confrontano visioni ben diverse, che si potrebbero dire anche costituzionali, per cui le dinamiche politiche degli Stati vengono trasposte alle dinamiche ecclesiali. La via scelta sarà quella della concentrazione monarchica dell’autorità centrale nella Chiesa, ma c’era chi avrebbe preferito una dimensione costituzionale della Chiesa.

D’altra parte la discussione è più antica, sebbene con l’impiego di altre categorie. Ad esempio, già nel primo secolo dell’era cristiana si erano confrontati due diversi modelli di governo locale della Chiesa, a fronte delle comunità giudaiche a guida presbiterale si configuravano quelle paoline sotto la guida di un episcopato monarchico. Modello, quest’ultimo, che ha vinto nella storia. Ma la vera questione per secoli ha riguardato il governo centrale della Chiesa. La ricerca di un modello tra pretese del vescovo di Roma e fatti compiuti da parte dei concili locali e degli imperatori ha generato un lungo percorso con sperimentazioni di diverse modalità della gestione della Chiesa, che hanno avuto diverse e alterne fortune. Non è mancata una concorrenza tra ecclesiastici e laici. Tra epoca medievale e quella moderna si erano confrontate tipiche forme di governo, che vedevano la concorrenza tra il modello del centralismo romano e quello del conciliarismo di alcuni vescovi e sovrani, fino a giungere alla piena epoca moderna che ha visto un confronto vivace tra la guida romana e la pretesa delle guide dei sovrani a livello locale. È il tempo delle Chiese nazionali. È all’interno di questo plurisecolare dibattito che va inserita la riflessione ecclesiologica tra XIX e XX secolo.

In quei tempi si confrontarono due concezioni di concilio: una, papale e curiale, «intendeva mostrare un’unità – per quanto possibile senza incrinature e conflitti – della gerarchia con e sotto il vicario di Cristo; essa si collocava nel segno di una massiccia autoaffermazione della Chiesa di fronte all’Illuminismo e alla Rivoluzione»;2 l’altra, invece, esprimeva «la concezione di un concilio che tenesse positivamente conto dell’evoluzione costituzionale-parlamentare dell’epoca moderna e fosse un modello di libera discussione».3 Qui si impiega la terminologia di uno studioso tedesco per inserire l’approccio ratzingeriano nel suo contesto primario e originario interno al mondo germanofono. La discussione in ogni caso fu libera in quel XIX secolo.

Il confronto di allora è ancora attuale, perché l’ecclesiologia in particolare, come del resto anche l’insieme della teologia, tende ad essere sottoposta agli influssi della sociologia, dei suoi approcci, che a volte non vengono superati a beneficio di un ampio discorso teologico. Si pensi all’insieme della cosiddetta teologia contestualizzata, come ad alcune sue declinazioni quali la teologia nera (James Cone), la teologia asiatica (Michael Amaladoss), la teologia femminista (Mary Daly), la teologia ecologica (Leonardo Boff) e la teologia queer (Marcella Maria Althaus-Reid). Il contributo di Ratzinger entra in questo contesto storico ampio, portando una riflessione che vuole fortemente distinguere l’approccio teologico da uno politico o di scienze sociali in genere.

♦ 2. Chiesa e modelli socio-politici

È ben noto che Ratzinger non abbia mai condiviso la riduzione della Chiesa a categorie molto umane, principalmente sociologiche, come ad esempio a una democrazia, e ciò per più ragioni che appaiono nel volume qui presentato. Parafrasando il teologo bavarese, si potrebbe dire che la Chiesa non è questione di democrazia. Fra i vari contributi che si possono individuare nell’ecclesiologia di Ratzinger, uno particolarmente significativo è quello che vuole presentare e valorizzare la Chiesa quale un unicum, irriducibile a mere categorie socio-politiche e dunque al linguaggio del «potere».4

Innanzitutto nella sua riflessione, sin dai primordi, il teologo bavarese ha voluto evitare ogni riduzione della Chiesa allo Stato e quindi ogni riduzione delle critiche alla Chiesa a quelle allo Stato. Il confronto con lo Stato avviene in più passaggi della riflessione di Ratzinger, probabilmente a causa della sua appartenenza al mondo tedesco, in cui la valenza e la pervasività delle forme dello Stato ne caratterizzano non solo la storia civile, ma anche ecclesiastica, dai vescovi principi ai concordati contemporanei, dal mondo cattolico a quello luterano. Nella storia tedesca l’alleanza e il conflitto tra Chiesa e Stato ha prodotto un cristianesimo (tanto cattolico che luterano) che non può non pensarsi al di fuori di questo connubio o comunque di questo stretto rapporto. In ogni caso, già nel 1962, nel contesto della preparazione al concilio Vaticano II, Ratzinger scriveva e pubblicava un testo dal titolo Critica alla Chiesa? Osservazioni dogmatiche: Chiesa di santi – Chiesa di peccatori.5 In questo testo voleva presentare la Chiesa come un «totalmente altro»6 rispetto alle istituzioni umane. Un «totalmente altro» che se si può sostenere nella riflessione teologica sul piano ontologico, ha più difficoltà con un approccio storicizzante, che è sensibile alle mutazioni e alle contaminazioni. In ogni caso, dopo un ragionamento teologico intorno al profetismo nell’Antico Testamento e nel tempo della Chiesa, Ratzinger ritiene che «il nuovo profetismo non può più significare la contestazione dell’istituzione stessa. In altri termini: ora la critica (al contrario dell’Antico Testamento) non è più – diciamo con maggiore precisione – critica alla Chiesa stessa ma agli uomini nella Chiesa».7 Fra l’altro questa distinzione ritorna in altri scritti, come anche in quelli teologico-spirituali.8

Ratzinger preferisce parlare di una critica nella Chiesa, all’interno della Chiesa; in questo senso – in positivo – la ritiene sempre possibile, ad eccezione della critica al dogma, che invece, in quanto tale, «esige l’assenso assoluto».9 Ratzinger fa proprio quanto espresso da Karl Rahner, cioè «il fatto che la Chiesa ha bisogno di una sorta di opinione pubblica», anzi «è necessario che ci sia sempre “libertà di parola nella Chiesa”»10 (in testi successivi distinguerà meglio opinione pubblica da libertà di parola). Come si percepisce dalla terminologia impiegata, alcune categorie sociologiche e politologiche entrano nel discorso ecclesiale. Si è figli del proprio tempo. In questo contesto, Ratzinger colloca anche il ruolo dei laici, che dovrebbero svolgere un compito di critica (cioè di pensiero responsabile e libero) riguardo al rapporto Chiesa-mondo. L’ambito del laico è più il mondo che il teologico.11 Si tratta di un ruolo che fa da ponte tra Chiesa e mondo. Questa riflessione del tempo dell’avvio dei lavori del concilio Vaticano II appare significativa non solo perché sarà confermata vent’anni dopo dal Codice di diritto canonico del 1983, ma in quanto poi le dinamiche storiche andranno in tutt’altra direzione, poiché si avranno nella Chiesa dei laici sempre più clericalizzati e poco presenti nel mondo e dunque poco funzionali a far comprendere questo mondo alla Chiesa e questa Chiesa al mondo.

Ritornando sulla questione della considerazione della Chiesa come un unicum, il teologo bavarese continua su questa strada per tutto il decennio degli anni Sessanta, mettendo in luce aspetti che rendono l’istituzione ecclesiastica incomparabile ad uno Stato. Ratzinger nel 1962 puntualizza che in quei giorni,

sbagliando, si concepisce la Chiesa in analogia con lo Stato, confusione sulla quale si fonda largamente la critica alla Chiesa oggi di moda; laddove invece già è errato definire la gerarchia ecclesiastica (il papa e i vescovi) semplicemente come «la Chiesa»; e ancor più errato è presentare sottobanco la burocrazia ecclesiastica – necessaria in questo tempo terreno – come «la Chiesa». […] Che cos’è dunque la Chiesa? […] communio sanctorum […] in primo luogo communio sanctorum equivale a communio sacramentorum […] ma poi significa anche communio sanctorum hominum (= fidelium).12

Si nota in queste parole un debito di impostazione a Henri de Lubac.

Ancora nel 1980, da arcivescovo di Monaco, in un discorso ai canonisti ribadisce la sua visione: «La Chiesa possiede una costituzione che scaturisce dalla sua propria natura e dunque non è identica a nessuna costituzione statale».13 Allo stesso tempo deve, però, riconoscere un certo condizionamento, che lui definisce di sviluppata corrispondenza. Sappiamo, infatti, che nel secondo millennio si sono avute reciproche imitazioni tra Chiesa e Stati.14 Il teologo bavarese, però, vuole marcare le differenze o almeno le tipicità ecclesiali, irriducibili a quelle statali. La questione in ultimo è semplice: il sistema democratico può essere un modello per la Chiesa? È una domanda del 1980, che però non ha perso la sua attualità, in quanto continuamente emerge nel dibattito teologico. Questo fa pensare a quanto alcune riflessioni ecclesiologiche siano rimaste ferme nel tempo, come non risolte, o almeno non da tutti accettate nella loro risoluzione. Ratzinger teologo, arcivescovo, cardinale prefetto della Congregazione per la dottrina della fede e papa, quel Ratzinger ha una risposta netta: non si può fare della Chiesa una copia dello Stato democratico di diritto a causa della natura e dell’origine della Chiesa.15 Infatti, la democrazia in ultimo si riduce a strumenti formali di funzionamento del vivere insieme, mentre la Chiesa ha un suo proprium, «in base al quale vanno configurate le sue strutture».16

La sottolineatura di questa unicità ecclesiale attraversa l’opera di Ratzinger in più direzioni, venendo considerata da diversi punti di vista, distinti ma convergenti.

Innanzitutto, il teologo tedesco introduce un elemento per scardinare ogni assimilazione ecclesiastica alla mondanità politica, che è quello di «carisma», che per lui corrisponde all’azione dello Spirito nella Chiesa. In maniera concreta parla della santità, dei carismatici nella storia della Chiesa, da Ildegarda di Bingen a Caterina da Siena, da Teresa d’Avila a Ignazio di Loyola. Particolarmente si concentra su Francesco d’Assisi.17 Ama evidenziare la non riduzione della Chiesa carismatica alla società. A fronte di un monachesimo (anche cluniacense) interpretato come «espressione della completa fusione di fede e società, nella quale il sale della fede necessariamente perdeva qualcosa del suo sapore»,18 pone Francesco d’Assisi con la sua esigenza escatologica dell’avvento del Signore, secondo la via del Discorso della montagna, contrapponendo anche l’evangelizzazione alla crociata. C’è un «rifiuto delle forme esistenti di Chiesa», delle «forme concrete della cristianità occidentale» e allo stesso tempo un’adesione «alla Chiesa altrettanto radicale», un’«obbedienza alla Chiesa romana».19 Non può allora non fare un riferimento a Ignazio di Loyola, «che con gioia accetta le catene dell’Inquisizione per adempiere in quel modo sia l’obbedienza al suo compito, sia l’obbedienza alla Chiesa concreta nella quale egli doveva realizzarlo».20 È in ultimo la santità a non permettere una riduzione della vita ecclesiale a dinamiche meramente sociali. L’operazione teologica di Ratzinger all’interno dell’opinione pubblica cattolica vuole assicurare gli elementi di impossibilità di assimilazione della Chiesa alla società e alle sue istituzioni. Per far questo, però, deve puntare su elementi caratterizzanti, come la santità, che in ultimo nell’esperienza storica è solo per alcuni o almeno è riconosciuta solo per pochi eroi. La santità è il criterio della ri-forma della Chiesa.

In questo senso si trova anche la lettura dell’azione dello Spirito Santo nella Chiesa postconciliare: a fronte dell’inverno della Chiesa di cui parlava Rahner, a fronte di quelli che Ratzinger chiama «dibattiti intellettualistici e progetti di costruzione di una Chiesa totalmente diversa e fatta a propria immagine»,21 il teologo bavarese parla di uno Spirito Santo che «irrompe» e che «scombina sempre i progetti degli uomini».22

Ratzinger, interessato alla storia e attento alle sue evoluzioni, in ultimo la scansa, per una lettura strettamente teologica del dato ecclesiale.

Questo lo si vede chiaramente anche nel fatto di leggere le strutture ritenute essenziali della Chiesa, quali i tre gradi dell’ordine sacro, in una maniera strettamente sacramentale, tanto da affermare nel 1998:

Che l’unico elemento strutturale permanente della Chiesa sia un «sacramento» significa, al contempo, che esso deve essere continuamente ricreato da Dio. La Chiesa non ne dispone autonomamente, non si tratta di qualcosa che semplicemente esista e sia da determinare secondo le proprie decisioni.23

La stessa esigenza del celibato sacerdotale viene intesa come alterità carismatica della Chiesa rispetto ad un discorso puramente umano-istituzionale: l’esigenza del celibato è il vincolo carismatico,24 è espressione dell’irrompere del divino nell’istituzionale. In ultimo si trovano parole nette: «La Chiesa è interamente sé stessa solo laddove sono trascesi i criteri e le modalità delle istituzioni umane».25

Se questi elementi sono caratterizzanti, Ratzinger è comunque obbligato a confrontarsi su altri piani, condizionati da altri approcci, fra cui eminentemente quello politico. Così, di fronte ad un linguaggio politico-ecclesiastico binario, risponde:

Dividere la Chiesa in una «sinistra» e una «destra», nello status profetico degli ordini religiosi o dei movimenti da una parte e nella gerarchia dall’altra, è un’operazione a cui nulla nella Scrittura ci autorizza. Al contrario è qualcosa di artefatto e di assolutamente antitetico alla Scrittura. La Chiesa è edificata non dialetticamente, bensì organicamente.26

In essa, però, c’è un dibattito, all’interno del quale disputa lo stesso teologo.

A volte per eliminare alcuni modelli di possibili dinamiche ecclesiali, ispirate alle istituzioni parlamentari, Ratzinger deve adeguarsi al linguaggio, rifacendosi a discussioni intorno alle prassi parlamentari dei regimi democratici liberali. In un intervento, pubblicato nel 1985, dal titolo Domande circa la struttura e i compiti del Sinodo dei vescovi,27 ragiona sulla possibilità della concezione di un Sinodo dei vescovi deliberativo e non consultivo, in ordine ad una ritenuta rappresentanza dell’episcopato mondiale, tramite un cosiddetto «mandato imperativo» da parte delle Conferenze episcopali nazionali ai propri rappresentanti. A suo avviso, un approccio del genere non produrrebbe alcun frutto, perché impedirebbe un dibattito autentico, in quanto ciascun rappresentante degli episcopati nazionali sarebbe imperativamente vincolato al suo mandato, senza possibilità di mediazioni. I sinodi, invece, hanno bisogno di dibatti autentici.28

Sempre nel testo del 1985 Ratzinger continua a confrontare le dinamiche della Chiesa con quelle tipiche dei sistemi democratici occidentali, facendo riferimenti anche ai concili ecumenici e presumibilmente alla sua stessa esperienza di circa vent’anni prima al concilio Vaticano II. La presa di posizione è netta:

In questioni di fede e di morale nessuno può essere vincolato da decisioni di maggioranza. Questa è anche la ragione per cui le conferenze episcopali non hanno alcun potere dottrinale e in quanto tali non possono rendere vincolante alcuna dottrina. Stando così le cose, anche i concili ecumenici, in questioni di fede e di morale, possono decidere solo all’unanimità morale, poiché la verità non si può produrre per decisione, ma si può solo accettare riconoscendola. La forma per definire come tali delle verità non è la decisione a maggioranza, bensì la presa d’atto, che si manifesta comunitariamente, che i custodi della fede [= i vescovi], uniti in comunione sacramentale, riconoscono assieme un’affermazione come conseguenza di questa loro fede.29

La questione accennata, dopo diversi decenni, è ancora attuale nel dibattito ecclesiologico, ad esempio in riferimento proprio alle Conferenze episcopali nazionali e ai loro poteri. In realtà qui la questione è anche precedente. Infatti, questo testo del 1985 riprende temi e argomentazioni passate,30 del 19 luglio 1964, nella pausa tra II e III sessione del Vaticano II, a proposito dell’unità della Chiesa, nei mesi che precedono l’approvazione della costituzione dogmatica Lumen gentium del concilio Vaticano II. Già in quegli anni Ratzinger parlava di «unanimità morale»31 nei processi decisionali relativi alla fede. E in maniera più chiara affermava:

Il concilio non va ai voti sulla verità – cosa impossibile –, ma constata l’unanimità della fede: l’unità, per esso, è il segno che si è di fronte all’unica fede. Le definizioni non possono creare nulla di nuovo nella Chiesa, ma sono solo il riflesso dell’unità che esse difendono e chiariscono contro possibili offuscamenti.32

Continua la sua riflessione andando contro il criterio che l’opinione più diffusa (statisticamente parlando) sia quella che possa determinare le verità nella Chiesa. L’opinione pubblica, tipica delle società democratiche, non ha valenza nella Chiesa cattolica, perché a volte anche una maggioranza statistica può perdere di vista i dati oggettivi della Scrittura e del dogma. Lasciamo la parola a Ratzinger:

In questo caso la parola del papa può e deve senz’altro porsi contro la statistica e contro la potenza di un’opinione che avendo la voce grossa pretende di essere la sola valida; […]. Sarà possibile e necessaria, viceversa, una critica a pronunciamenti papali nella misura in cui manca a essi la copertura nella Scrittura e nel Credo, ovverosia nella fede di tutta la Chiesa.33

Anche nel confronto vivace con il teologo e cardinale Walter Kasper, a proposito della preminenza della Chiesa universale su quella locale, Ratzinger, nel dare la sua risposta teologica e biblica, nel 2001 non può esimersi dal considerare che il rifiuto della preminenza dell’universale sul particolare, a causa di timori di una riproposta di centralismo romano, di una restaurazione papale e di un capovolgimento del concilio Vaticano II, è dovuta anche ad un approccio politico ecclesiastico.34

♦ Conclusioni

In conclusione, questo breve percorso ha mostrato come nell’ecclesiologia di Ratzinger la forma della Chiesa sia «data» e, pur interessando l’elemento storico, in ultimo esso è superato dal piano del «dover essere» della Chiesa, cioè dal piano filosofico-teologico. Al di là dei dibattiti interni alla Chiesa sul rapporto papa-vescovi, primato-collegialità e Chiesa universale-Chiesa locale, Ratzinger deve aprirsi ad un altro fronte del cattolicesimo novecentesco, che è quello non solo della presa in considerazione delle scienze sociali, ma della loro assunzione e incidenza rispetto alla vita della comunità credente. Il confronto con le categorie politiche lo porta a ribadire l’unicità e l’originalità della Chiesa, perché àncora la riflessione al tema della verità e al suo darsi dentro la Chiesa. Un discorso così impostato difficilmente può portare a contaminazioni tra teologia e scienze sociali, che invece è il percorso intrapreso da buona parte dei teologi (se si può permettere la generalizzazione). Queste contaminazioni portano, però, a considerare il piano della vita della Chiesa e della sua riforma su un asse principalmente orizzontale, riducendo la complessità umano-divina della Chiesa a dinamismi per lo più antropologici, approccio limitante per la scienza teologica. D’altra parte, l’umano-divino è proprio dell’ambito teologico, sfuggendo inevitabilmente a tutte le altre discipline (meriterebbe, però, un discorso a sé stante la filosofia).

In questo contesto, come si colloca in ultimo il contributo ecclesiologico di Ratzinger? Sicuramente in controtendenza. Che capacità incisiva ha? È da scoprire. A livello delle giovani generazioni i suoi testi sono molto diffusi (basti pensare alle continue pubblicazioni in più lingue dei suoi volumi Introduzione al cristianesimo e Introduzione allo spirito della liturgia). A livello dell’accademia il discorso è più complesso e al momento non ponderabile. Sicuramente appare un pensiero sempre più studiato a causa della crescita delle tesi dottorali che vi si confrontano e alla fondazione di gruppi di studio e di cattedre a lui dedicati. In ultimo e in ogni caso, il contributo ecclesiologico di Ratzinger ha il valore della testimonianza e dell’esemplarità di una teologia che non si preoccupa della ricerca del consenso, nonostante siano di fatto ormai invalse mentalità democratiche nella gestione delle Chiese occidentali, in cui la ricerca dell’approvazione ha la sua importanza e incisività. L’ecclesiologia di Ratzinger assume allora i connotati di un cammino più rivolto alla ricerca di Dio che alla ricerca delle pratiche dell’uomo. In fondo è una tendenza presente nella teologia novecentesca che nel parlare di Chiesa e nel cercare di liberarla dalle incrostazioni del tempo guarda indietro. Teologi come Yves Congar o de Lubac hanno parlato di riforma di Chiesa, intendendo un tornare alle fonti, cioè in ultimo guardando al passato, che è ritenuto fondante. La teologia ratzingeriana è nel solco di questa operazione che vuole ri-formare, togliendo il di più, il troppo. È in ultimo un’operazione di ablatio. Michelangelo docet.


1. G.L. Müller, Prefazione, in J. Ratzinger, Opera omnia, G.L. Müller (ed.), vol. 8/1: Chiesa: segno tra i popoli. Scritti ecclesiologici e di ecumenismo, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2021, 6.

2. K. Schatz, Storia dei Concili. La Chiesa nei suoi punti focali, Bologna, EDB, 1999, 212; orig. tedesco: Allgemeine Konzilien. Brennpunkte der Kirchengeschichte, 1997.

3. Schatz, Storia dei Concili, 212.

4. Alcune delle riflessioni qui presenti sono state anticipate in R. Regoli, Il rapporto Chiesa-mondo nel pensiero di Joseph Ratzinger, in A. Clemenzia – R. Regoli (ed.), Ratzinger e la Chiesa. Approcci di ricerca, Firenze, Nerbini, 2023, 15-24.

5. J. Ratzinger, Critica alla Chiesa? Osservazioni dogmatiche: Chiesa di santi – Chiesa di peccatori, in Id., Opera omnia, vol. 8/1, 538-553.

6. Ratzinger, Critica alla Chiesa?, 540.

7. Ratzinger, Critica alla Chiesa?, 544.

8. Cf. J. Ratzinger, Franchezza e ubbidienza. Il rapporto del cristiano con la sua Chiesa, in Id., Opera omnia, vol. 8/1, 498-520.

9. Ratzinger, Critica alla Chiesa?, 548.

10. Ratzinger, Critica alla Chiesa?, 550-551.

11. «Il compito del laico non è tanto la critica esercitata nel vero e proprio ambito teologico, quanto il contributo di pensiero responsabile, libero e critico riguardo ai diversi livelli del rapporto del mondo con la Chiesa. È qui che egli può e deve aiutare a integrare i dati spesso insufficienti delle istituzioni ecclesiastiche attraverso il suo contributo di pensiero e la sua critica nei campi di sua competenza; potendo e dovendo scorgere nella critica un compito realmente positivo nella Chiesa, anche se esso in un primo momento non dovesse essere immediatamente compreso dai detentori degli uffici» (Ratzinger, Critica alla Chiesa?, 551).

12. Ratzinger, Critica alla Chiesa?, 546.

13. J. Ratzinger, Libertà e vincoli nella Chiesa, in Id., Opera omnia, vol. 8/1, 485.

14. Si pensi alla diatriba medievale tra imitatio Imperii e imitatio Sacerdotii. Per l’epoca della prima modernità si rimanda a P. Prodi, Il sovrano pontefice, Bologna, Il Mulino, 1982 e per la seconda modernità ancora a P. Prodi, Dinamiche della Chiesa nell’età moderna e concilio Vaticano I, in Teologia 40 (2015), 15-28 e a M. Baumeister – A. Ciampani – F. Jankowiak – R. Regoli ed.), Il Concilio Vaticano I e la modernità, Roma, G&BPress, 2020.

15. Cf. Ratzinger, Libertà e vincoli nella Chiesa, 486.

16. Ratzinger, Libertà e vincoli nella Chiesa, 487.

17. Lasciamo le parole al teologo tedesco, datate 1970: «Francesco d’Assisi non fu propriamente il fondatore di un Ordine, quantomeno non lo volle essere. Sapeva che il compito che lo attendeva era molto più radicale: egli voleva raccogliere un novus populus che seguisse il Discorso della montagna sine glossa, trovando in esso la sua unica e immediata “regola”. Questo per Francesco significava esattamente l’opposto della “fondazione di un Ordine”» (J. Ratzinger, Osservazioni sulla questione dei carismi nella Chiesa, in Id., Opera omnia, vol. 8/1, 391).

18. Ratzinger, Osservazioni sulla questione dei carismi nella Chiesa, 392.

19. Ratzinger, Osservazioni sulla questione dei carismi nella Chiesa, 393.

20. Ratzinger, Osservazioni sulla questione dei carismi nella Chiesa, 394-395.

21. J. Ratzinger, I movimenti ecclesiali e la loro collocazione teologica, in Id., Opera omnia, vol. 8/1, 399.

22. Ratzinger, I movimenti ecclesiali e la loro collocazione teologica, 399.

23. Ratzinger, I movimenti ecclesiali e la loro collocazione teologica, 401. La nozione di sacramento è per lui fondamentale: «Il sacramento significa che essa vive e viene continuamente ricreata dal Signore quale “creatura dello Spirito Santo”» (Ratzinger, I movimenti ecclesiali e la loro collocazione teologica, 423).

24. Cf. Ratzinger, I movimenti ecclesiali e la loro collocazione teologica, 402.

25. Ratzinger, I movimenti ecclesiali e la loro collocazione teologica, 402.

26. Ratzinger, I movimenti ecclesiali e la loro collocazione teologica, 408.

27. J. Ratzinger, Domande circa la struttura e i compiti del Sinodo dei vescovi, in Id., Opera omnia, vol. 8/1, 626-645.

28. Così scrive: «Se le decisioni delle singole conferenze episcopali – come si può facilmente supporre – non sono identiche, l’assemblea dei delegati è condannata alla totale immobilità: nessuno, infatti, può lasciarsi convincere da altri, perché ciascuno è appunto vincolato al suo mandato. Ogni vero dibattito e ogni accordo sono esclusi. È per questo che la prassi democratica, in ambito politico, rifiuta assolutamente il mandato imperativo richiesto da determinati ideologi, perché sarebbe la fine della democrazia. Benché sinodi e concili non siano un parlamento, hanno anch’essi bisogno di autentici dibattiti; neppure essi possono reggere sotto il dominio del mandato imperativo» (Ratzinger, Domande circa la struttura e i compiti del Sinodo dei vescovi, 640).

29. Ratzinger, Domande circa la struttura e i compiti del Sinodo dei vescovi, 640.

30. J. Ratzinger, Primato ed episcopato, in Id., Opera omnia, vol. 8/1, 715-750.

31. Ratzinger, Primato ed episcopato, 746.

32. Ratzinger, Primato ed episcopato, 746.

33. Lasciamo la parola a Ratzinger: «Si dovrebbe evitare soprattutto l’impressione che il papa (o in generale chi è titolare del ministero) possa solo raccogliere ed esprimere di volta in volta la media statistica della fede viva, per cui non sarebbe possibile una decisione contraria a tali valori statistici medi (l’accertabilità dei quali è peraltro problematica). La fede si norma sui dati oggettivi della Scrittura e del dogma, che in tempi bui possono anche scomparire in modo sconcertante dalla coscienza della (statisticamente) maggior parte della cristianità senza perdere tuttavia nulla del loro carattere vincolante. In questo caso la parola del papa può e deve senz’altro porsi contro la statistica e contro la potenza di un’opinione che avendo la voce grossa pretende di essere la sola valida; e ciò dovrà avvenire con tanta più decisione, quanto più chiara sarà (come nel caso ipotizzato) la testimonianza della Tradizione. Sarà possibile e necessaria, viceversa, una critica a pronunciamenti papali nella misura in cui manca a essi la copertura nella Scrittura e nel Credo, ovverosia nella fede di tutta la Chiesa» (Ratzinger, Primato ed episcopato, 747).

34. Scrive esattamente: «Se si purifica il concetto di Chiesa universale da false associazioni politico-ecclesiastiche e lo si interpreta nel suo vero contenuto teologico (e proprio per questo così concreto), emerge con chiarezza che l’argomentazione politico-ecclesiastica non coglie il contenuto della questione» (J. Ratzinger, Chiesa locale e Chiesa universale. Risposta a Walter Kasper, in Id., Opera omnia, vol. 8/1, 674-683, qui 682).

 


♦♦♦ Tra tradizione e innovazione. Un grande teologo europeo

di Andrea Riccardi

Parlare di questo ottavo volume dell’Opera omnia di Joseph Ratzinger,35 seppure da storico contemporaneista non ne ho la competenza teologica, è da parte mia un omaggio a un papa, Benedetto XVI, che si colloca originalmente tra tradizione e innovazione, e a un grande teologo europeo. Ma non solo: a un grande pensatore europeo, riconosciuto come membro dall’Académie des Sciences Sociales et Morales, sulla poltrona che fu di Sakharov.

Editorialmente felice è la pubblicazione, in apertura, della fotografia del giovane teologo Ratzinger che conversa con il maturo padre Yves Congar: due generazioni di teologi europei diverse, il primo del 1926 e il secondo del 1904, con diverso approccio, ma soprattutto diversa storia. Nel 1965 Congar scrive nel suo Diario del Concilio: «Fortunatamente c’è Ratzinger. È ragionevole, modesto, disinteressato, di buon aiuto».36 Sono parole assai significative. E il grande teologo francese – che ho conosciuto da vicino e visitato l’ultima volta agli Invalides, dov’era ricoverato in quanto ufficiale francese – non era tenero nei suoi giudizi: basta vedere quello che scrive su de Lubac.37 Fa eccezione quanto annota su Wojtyla, incontrato al concilio, che invece è quasi lirico.38

Congar, de Lubac ed altri sono segnati da una ricerca in un tempo difficile per la teologia e hanno vissuto il Vaticano II come una primavera e una liberazione. Ratzinger, che ha vissuto la sua maturità al concilio, si è posto il problema della recezione del Vaticano II e della lunga stagione postconciliare con un approccio pensato e meditativo, ben differente da quello emotivo o politico che ha caratterizzato quel periodo. Erano gli anni in cui si assisteva ad un mix di «postconcilio» e di ’68, come scriveva lo stesso padre Congar.

Ratzinger ha creduto di dover assicurare alla Chiesa il suo servizio di teologo in piena libertà (anche dalle mode e dalle pressioni dell’opinione pubblica), attraverso lo studio e l’insegnamento. È espressione di questa sua coscienza la pubblicazione inattesa della biografia di Gesù. La sua nomina a Monaco di Baviera e poi il cardinalato, in un certo senso, se non interrompono, lo portano lontano da quello che sentiva come suo compito.

Quando fu creato cardinale, in un’università romana si raccontava che gli fosse stato spedito un telegramma ironico: «Teologia moderata, carriera assicurata». Ebbene, non era questa la carriera che avrebbe voluto fare, non solo perché lo portava lontano dalle carte e dai libri, ma soprattutto dalla sua vocazione di teologo nella Chiesa. Allontanatosi dalla sua traiettoria per obbedienza, alla fine ha dato al suo stesso pontificato un taglio di riflessione, come mostrano anche le sue encicliche.

E la Chiesa ha bisogno di teologia e di pensiero ma anche di senso della storia, proprio in una stagione in cui il cristianesimo e le religioni si vanno deculturalizzando e, anzi, scivolano nel mondo dell’emotività (non da disprezzare, ma di certo non può essere l’unica dimensione del credere). E oggi si sente questa deculturazione del cristianesimo nel linguaggio della Chiesa e nella stessa teologia.

La pubblicazione dell’Opera omnia rappresenta una vera ricchezza perché mette a disposizione materiale spesso introvabile e ci consente di percorrere l’itinerario di pensiero del teologo Ratzinger, anche se – come accade per ogni Opera omnia – si perde un poco il contatto con il singolo libro o con il singolo saggio, espressione di un momento della vita intellettuale dell’autore.

La pubblicazione in italiano di questa Opera omnia è una grande acquisizione per la nostra cultura e dobbiamo esserne grati, oltre che ovviamente al card. Müller, ai curatori Pierluca Azzaro e Lorenzo Cappelletti. Grazie al loro lavoro Ratzinger continuerà a parlare alla nostra cultura e al nostro pensiero.

Questa pubblicazione dell’Opera si colloca nel tempo in cui avviene e non solo in quello in cui i testi sono stati scritti. Il libro parla all’oggi. L’oggi è quello terribile della guerra in Europa, dell’invasione dell’Ucraina, dei milioni di profughi che si riversano nel nostro continente, delle morti e delle violenze, del rischio di una guerra più grande, ma anche della crisi dell’ecumenismo (simile a quella delle Chiese di fronte alla Prima guerra mondiale, quando s’interrogarono se la divisione dei cristiani non favorisse la conflittualità). Non a caso si assiste a una certa fatica delle Chiese europee, impegnate in loro problematiche interne, se non introverse, di fronte all’abisso del male che è la guerra.

Oggi, in alcuni paesi dell’Est, papa Francesco è criticato e accusato di silenzio, per non aver chiamato nominatim i colpevoli della guerra, nonostante le sue forti e appassionate prese di posizione per la «martoriata Ucraina». Sono stato qualche giorno al confine slovacco-ucraino e in Polonia, ed ho ammirato la dignità delle donne ucraine rifugiate con i loro figli e anziani. Ma come parla oggi la Chiesa tra i popoli e i governi? Come pensa la Chiesa e come parla? È forse un soggetto addossato al linguaggio dei governi o al seguito delle correnti dell’opinione pubblica? In tempo di guerra – ma forse anche in tempo di pace – si chiede alla Chiesa di essere un’agenzia che fa eco al mainstream delle correnti di opinione pubblica.

Questo volume invece aiuta a guardare al presente con uno sguardo che viene da lontano e che considera tutte le dimensioni, senza cedere all’unilateralismo emotivo e contrapposto tipico del nostro tempo. È significativo, per l’oggi, a partire dal titolo: Chiesa: segno tra i popoli. Come pensare e vivere una Chiesa segno tra i popoli? Aprendo queste pagine ho ritrovato subito un libro, tradotto in italiano nel 1960, lo stesso anno dell’edizione tedesca, che mi ha aiutato molto in quegli anni, Fraternità cristiana.39 Lo dissi al cardinale una volta, ma lui sorrise sottovalutando: «Ma quel libretto!». Mi colpì, da giovane lettore quale ero, la chiarezza del pensiero di Ratzinger, che non negava la complessità ma non la risolveva in formule astratte. E poi oggi, in questo conflitto, che divide l’Europa, contrappone popoli ortodossi e gerarchie, lacera famiglie, distrugge un paese e colpisce Kiev, la Gerusalemme ortodossa di Rus’, «città madre di tutte le città della Rus’» (secondo la dichiarazione del re Oleg nell’882), è decisivo parlare di fraternità cristiana e chiedersi che cosa ne abbiamo fatto. Régis Debray, nel suo Le moment fraternité del 2009, osserva che nella triade della Rivoluzione francese, la «fraternità» è il parente povero, l’ideale inattuato rispetto a libertà e uguaglianza.40

Molto interessante è, in Fraternità cristiana, il confronto tra cristianesimo e marxismo su questo tema: siamo quasi alla vigilia del ’68 con l’impatto che ebbe nella Chiesa. Per i marxisti – scrive – il fine è la fraternità senza distinzioni, ma la via per realizzarla è «una fratellanza limitata al partito socialista», «l’ammissione di un’umanità bipartita».41 Insomma, la fraternità ha i suoi nemici. Nel capitolo centrale, il giovane autore mostra come la fraternità ha perduto la sua radice in Gesù e nel messaggio del cristianesimo primitivo. Qui un metodo che si ritrova in tanta parte della sua opera: tornare a Dio e al messaggio cristiano come fondamento di un vero senso della realtà. Nel 2000, nella nuova prefazione di Introduzione al cristianesimo, scrive: «È necessario, tuttavia, cominciare a chiedersi se non sia forse Dio la vera realtà, il presupposto necessario di ogni realismo».42

Fa bene rileggere oggi queste pagine di sessant’anni fa, in un tempo di guerra: da Gesù, vero fondamento della fraternità tra i cristiani e verso tutti, sgorga quello che Ratzinger chiama «il vero universalismo». Dice: «La comunità cristiana non è contro, bensì a favore del tutto».43 Ma è necessario che ci sia una comunità di sorelle e fratelli. Non basta un evanescente ideale di fraternità. La Chiesa, non tanto per il numero o la geografia dei fedeli, sarà sempre fraternità: «Nel suo amore e nel suo soffrire essa supera tutti i confini ed è veramente cattolica».44 In questo tempo di guerra, sentiamo come la parola «fraternità», come tante altre parole decisive, «sia minacciata da un’inflazione, da uno svuotamento interno, quando la forza delle convinzioni e degli atteggiamenti non riesce a controbilanciare l’eccedenza di parole-moneta messe in circolazione con irresponsabilità»,45 per utilizzare le parole del futuro Benedetto XVI.

Sentiamo svuotate tante parole vitali. Scrive papa Francesco in Fratelli tutti: «Svuotare di senso o alterare le grandi parole. Che significano oggi alcune espressioni come democrazia, libertà, giustizia, unità? Sono state manipolate e deformate».46 In realtà, dopo l’89, «nessuno crede più alle grandi promesse morali».47 Qui la necessità di pensiero, ma anche di vissuto che mostri come le parole divengono vita. Vuol dire ricominciare a vivere i grandi orizzonti cristiani, il che consente di comunicarli e di pensarli.

Notevole è la varietà dei contributi di questo volume da Origine e missione della Chiesa (con una parte dedicata all’identificazione nella Chiesa), alla Chiesa come sacramento universale di salvezza, al corpo di Cristo, al popolo di Dio, al tempio di Dio, fino alle strutture di comunione della Chiesa e al servizio del papa (e qui verrebbe da riflettere sul legame non solo tra papato e collegialità, ma tra funzione storica del papa e fraternità cristiana, anche rispetto alla pace).

Vorrei sottolineare due aspetti, su cui il suo pensiero getta luce. La Chiesa cattolica, durante il pontificato di Giovanni Paolo II, vive la transizione verso un mondo globale, che si pone come una realtà sfidante la comunità cristiana. È il mito post-’89, quello di una globalizzazione economica vincente che avrebbe portato ovunque democrazia e benessere, quasi come una nuova provvidenza: il provvidenzialismo della globalizzazione.

Il cattolicesimo è una globalizzazione ante litteram, seppure particolare, costruita nei secoli e sorretta da un cuore credente. La sfida della globalizzazione è quella di un mondo omologato e senz’anima, tale da ingenerare successivamente reazioni contrastanti e divisive, come vediamo. È un provvidenzialismo economicista senz’anima. Il grande patriarca di Costantinopoli Athenagoras diceva nel Natale 1968: «Guai se i popoli, un giorno, accederanno all’unità fuori dalle strutture e dalla teologia della Chiesa».48 Guai! È invece avvenuto dopo l’89.

Ratzinger scrive un saggio, Tra Babele e Gerusalemme di Pentecoste, dedicato al card. Gantin. La Chiesa – afferma – nasce potenzialmente universale (e qui il dibattito con il card. Walter Kasper): «La sua unità non sta nell’unità del fare e delle capacità esteriori, bensì in una relazione che parte da dentro e che non soffoca la diversità».49 All’uniformità tecnologica – dice –, a quella di Babele, «subentra la nuova pluriforme unità che definiamo “cattolicità”».50 Non sono riflessioni che costituiscono uno spunto da sviluppare su un tema decisivo: Chiesa e globalizzazione?

Nei testi dell’Opera, si sente come il teologo non abbia la sicurezza di una Chiesa di massa, ne conosca la fragilità, senta che sta arrivando una crisi che ridurrà – lo ha scritto più volte – le dimensioni delle comunità, ma non il loro valore evangelico. In questa prospettiva si collocano il famoso discorso di Subiaco e l’idea delle minoranze creative, ripresa dallo storico Toynbee.51 La Chiesa, segno tra i popoli, non è massa, ma segno!

Qui, tra i tanti temi, se ne affaccia uno che Ratzinger tratta con molta attenzione: i movimenti apostolici nella storia della Chiesa e nel suo presente. È anche il tema dei carismi. Queste idee, che furono rilanciate da Giovanni Paolo II nel 1998 a Pentecoste, non sono state dibattute successivamente. I movimenti hanno forse teso troppo a porsi come il «nuovo», a fronte del «vecchio» più istituzionale. Ma, alla fine, un po’ tutto diventa vecchio.

Ratzinger invita a vedere queste esperienze in modo profondo, non addossati all’attualità, non considerando soltanto i movimenti ecclesiali che esistono oggi, ma con un’apertura al futuro, guardando a quelli che verranno nelle forme nuove che prenderanno: «Ci si dovrebbe anche guardare dal proporre una definizione troppo rigorosa, poiché lo Spirito Santo tiene pronte ogni momento delle sorprese, e solo retrospettivamente siamo in grado di riconoscere che dietro le grandi diversità esiste un’essenza comune».52

Soprattutto uno è il punto decisivo sviluppato dal futuro Benedetto XVI e riguarda la «successione apostolica», non solo quella sacramentale, che tocca il vescovo e la Chiesa locale, ma anche quella che «trascende il ministero ecclesiastico puramente locale» proprio nel senso dell’apostolato, dell’evangelizzazione, dell’universalità, riguardando i battezzati associati insieme che si riconoscono in un carisma. Qui Ratzinger sviluppa «l’ampiezza del concetto di successione apostolica».53 E il papato – egli nota – non ha creato i movimenti apostolici, ma ne è stato un appoggio e un regolatore.54

Non insisto sul tema, ma noto solamente che è un campo immenso su cui riflettere, su cui gli stessi movimenti ecclesiali dovrebbero misurarsi: mentre tante strutture ecclesiastiche languiscono e la vita religiosa presenta forti difficoltà, non si tratta di difendere lo spazio dei movimenti esistenti, ma di pensare a un’apertura alla carismaticità, che vuol dire l’iniziativa cristiana, lo spazio delle donne, la capacità di una comunicazione evangelica e spirituale e tanto altro. Perché in fondo viviamo una contraddizione: siamo critici dell’istituzione e preoccupati del suo futuro, ma per mancanza di visione, pensiero e forse di audacia apostolica, riduciamo tutto al metro scontato dell’istituzione stessa.

L’Opera omnia dona quindi l’occasione, non solo per ricordare l’amabile figura di Benedetto XVI, ma per comprendere ancora una volta come il magistero del teologo Ratzinger e quello del papa, per la loro profondità, per il radicamento nelle Scritture, nei Padri e nella storia della Chiesa, possano nutrire il nostro presente, così difficile, così sfidato dalla guerra e da tante problematiche, che si rifiuta di vivere una Chiesa in uscita o in missione, come dice papa Francesco. Perché Ratzinger così ci ha insegnato fin dal 1966, quando scriveva, interpretando il Vaticano II: «Il concilio segna il passaggio da un atteggiamento di conservazione ad un atteggiamento missionario, ed il concetto conciliare contrario a “conservatore” non è “progressista”, ma “missionario”».55


35. J. Ratzinger, Opera omnia, G.L. Müller (ed.), vol. 8/1: Chiesa: segno tra i popoli. Scritti ecclesiologici e di ecumenismo, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2021.

36. Y. Congar, Diario del Concilio, vol. II: 1964-1966, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2005, 296.

37. Y. Congar, Diario del Concilio, vol. I: 1960-1963, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2005, 77.

38. Congar, Diario del Concilio, vol. II, 259.

39. J. Ratzinger, Fraternità cristiana, Roma, Edizioni Paoline, 1960; ora ripubblicato in Id., Opera omnia, vol. 8/1, 5-87.

40. Cf. R. Debray, Le moment fraternité, Paris, Gallimard, 2009.

41. Ratzinger, La fraternità cristiana, 25.

42. J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, con nuovo saggio introduttivo, edizione del 2000, Brescia, Queriniana, 2003, 14.

43. Ratzinger, La fraternità cristiana, 72.

44. Ratzinger, La fraternità cristiana, 81.

45. Ratzinger, La fraternità cristiana, 88.

46. Francesco, Fratelli tutti, par. 14, in www.vatican.va

47. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, 8.

48. O. Clement – Atenagora, Umanesimo spirituale. Dialoghi tra oriente e occidente, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2013, 663.

49. J. Ratzinger, Universalità e cattolicità, in Id., Opera omnia, vol. 8/1, 203.

50. Ratzinger, Universalità e cattolicità, 204.

51. Cf. Parole di Benedetto. La visione della Chiesa e del mondo negli interventi di Joseph Ratzinger, Milano, Àncora, 2005; cf. anche Europa. I suoi fondamenti spirituali ieri, oggi e domani. Lectio magistralis del Cardinale Ratzinger, Biblioteca del Senato, in https://www.senato.it/. Sulla definizione di minoranza creativa cf. A.J. Toynbee, A Study of History, vol. 3, London-New York-Toronto, Oxford University Press, 1961, 369.

52. J. Ratzinger, I movimenti ecclesiali e la loro collocazione teologica, in Pontificium Consilium pro laicis, I Movimenti nella Chiesa, Città del Vaticano, Tipografia Vaticana, 1999, 23-51, qui 47; ora in Id., Opera omnia, vol. 8/1, 398-431.

53. Ratzinger, I movimenti ecclesiali e la loro collocazione teologica, 423.

54. Cf. Ratzinger, I movimenti ecclesiali e la loro collocazione teologica, 417-418.

55. J. Ratzinger, Conferenza tenuta ad Aachen nel 1966, citata in V. Messori, Rapporto sulla fede, a colloquio con il cardinale Joseph Ratzinger, Cinisello Balsamo, Edizioni Paoline, 1985, 9.


♦♦♦ Una teologia «viva»

di Alessandro Clemenzia

Nella breve prefazione del curatore nel volume dell’Opera omnia di Joseph Ratzinger/Benedetto XVI interamente dedicato agli scritti di natura ecclesiologica, vengono tracciati alcuni elementi che possono immediatamente destare l’attenzione di chi muove la propria ricerca dentro la questione dell’autocoscienza ecclesiale.

Il primo elemento offre una indicazione di metodo: «I contributi sono il frutto di mezzo secolo di ricerca scientifica e d’insegnamento».56 L’ampiezza del testo, che raccoglie contributi scritti in mezzo secolo di ricerca teologica, impone di fare una presentazione che illustri soltanto alcuni punti centrali (e i più ricorrenti) del pensiero di Joseph Ratzinger, e di mostrare come quest’ultimo possa offrire degli spunti decisivi rispetto alla contemporaneità vissuta dalla Chiesa.

Il secondo elemento offre la prospettiva attraverso cui ci si può immergere nella lettura di queste pagine, nel momento in cui – in riferimento alle riflessioni ecclesiologiche di Benedetto XVI – viene affermato che «sono espressioni di una teologia viva».57 Tale vivacità può certamente alludere al grande lasso di tempo durante il quale il nostro autore ha scritto questi interventi; ma non penso che si tratti unicamente di questo. C’è qualcosa di più profondo e vero che è capace di rendere realmente «viva» questa teologia.

E qui si arriva al terzo elemento presentato nella prefazione, quando viene affermato: «Sulla natura della Chiesa, Joseph Ratzinger rimanda a Cristo come al centro permanente di essa».58 Qui viene offerta una chiara indicazione di contenuto: ciò che rende viva questa teologia e – potremmo aggiungere – ciò che rende vivace la Chiesa è la presenza «attuale» di Cristo.

A partire da queste tre brevi premesse, che offrono indicazioni di metodo, di prospettiva e di contenuto, si possono adesso presentare quegli spunti che, a mio avviso, possono davvero essere ritenuti decisivi per rispondere alle sfide odierne della Chiesa, pur essendo pensieri presentati più di cinquant’anni orsono.

Vorrei soffermarmi in modo molto sintetico su tre macro-questioni, che si possono condensare nei seguenti titoli: la presenza di Cristo come costante nella variabilità e nella molteplicità di forme che la Chiesa ha via via assunto lungo i secoli; la contemporaneità di Cristo inverata dall’evento liturgico; i carismi e l’universalità della Chiesa.

♦ 1. La presenza di Cristo come costante nella variabilità e nella molteplicità di forme che la Chiesa ha assunto lungo i secoli

Si è già affermato come nei numerosi scritti di Joseph Ratzinger si possa parlare di una teologia «viva». È effettivamente riduttivo ritenere che tale vivacità dipenda in modo esclusivo dal dinamismo coscienziale di colui che scrive (anche se questo è innegabile), ed è altrettanto riduttivo additare la possibilità di tale vivacità nella novità di approcci o di prospettive presentati dal teologo bavarese, o addirittura nel passaggio (molto spesso avvenuto lungo i secoli) da un paradigma ecclesiologico a un altro.

Ciò che rende «viva» la teologia è la presenza di Cristo. Si tratta di una verità che oggi sembra essere piuttosto poco in sintonia con alcuni odierni scenari ecclesiologici, anche se, nell’affermarla, si corre comunque sempre il rischio di cadere nell’accusa di una certa «scontatezza spirituale», soprattutto dal momento che oggi la riflessione teologica sembra essere attratta da questioni concrete ritenute molto più urgenti, nonostante papa Francesco continui a ribadire in molte circostanze l’importanza di un sempre rinnovato orientamento cristologico e pneumatologico della teologia.

Probabilmente tale «scontatezza spirituale» potrebbe anche derivare dal modo in cui viene argomentata l’esperienza di tale presenza. Non si tratta, infatti, di qualcuno che è capace di rimanere vivo semplicemente attraverso il ricordo, di generazione in generazione, di ciò che è avvenuto duemila anni orsono, ma di una presenza di cui si può costantemente fare esperienza, in quanto capace di riaccadere, in modo sempre nuovo, in ogni istante della storia della Chiesa. Una dimenticanza di tale «fatto emergente» può portare (come in effetti è successo), da un lato, a perdere di vista la peculiarità della dinamica genetica della Chiesa, dall’altro, ad assumere pensieri (e dunque linguaggi) incapaci di esprimere la portata teologica della vera natura della Chiesa, vale a dire, recuperando quanto affermato in Lumen gentium 8, il suo essere una realitas complexa, in riferimento alla sua dimensione umana (in quanto fatta di uomini e donne) e a quella divina (inverata dalla presenza e dall’azione in essa di Dio).

La dimenticanza di una presenza effettivamente ed efficacemente viva, si è detto, potrebbe portare a perdere di vista la dinamica ecclesiogenetica della Chiesa, non soltanto perché nell’origine si può già intravedere quella presenza capace di formare una comunicazione tale – come hanno espresso tanti ecclesiologi nel post-concilio – da generare nell’altro l’esperienza della realtà che si sta annunciando (si tratta di quel linguaggio performativo, che possiamo rintracciare nella pentecoste lucana, contenuta in At 2, dove Pietro, raccontando la propria esperienza personale di Cristo, è stato capace di «colpire al cuore» i propri interlocutori, e quel giorno si fecero battezzare circa tremila persone),59 ma anche perché nell’evento d’origine della Chiesa si possono cogliere quelle specificità che continuano a far sì che la Chiesa rimanga tale lungo i secoli. Si tratta, infatti, di una «costante essenziale» – si potrebbe così denominare – che si dà proprio nella molteplicità e nella variabilità delle circostanze storiche.

Eppure, anche dal semplice «fare memoria» di Cristo, come evento originario della Chiesa, potrebbe scaturire un’altra grossa difficoltà, vale a dire quella di cogliere questa presenza come se si trattasse del fare esperienza di qualcosa di già accaduto, e dunque ormai di passato, che è in qualche modo capace, sempre dal passato, di farsi sempre presente: una specie di prolungamento nello spazio e nel tempo di una personalità que segna l’origine di qualcosa di nuevo, e cioè il farsi carne del Verbo divino. Tale comprensione, che comunque rintraccia in Cristo el punto de partida per parlare della Chiesa, seppure animata da un buon fine pastorale, rimane comunque incapace di cogliere la portata teologica della Chiesa, in quanto Cristo se rende presente nell’oggi dell’umanità no como alguien que proviene dal passato e ha in sé stesso la forza di continuare a farsi vivo lungo i secoli, ma como colui che liberamente raggiunge l’uomo e la donna di oggi nella sua totale novità, e dunque dal «futuro».

Una presenza di cui si fa memoria, senza tuttavia essere memoriale, potrebbe facilmente far cadere nel rischio di ridurre la Chiesa a un mero fenomeno sociologico di portata universale, che vive semplicemente del ricordo di colui che, in qualche modo, ha dato avvio alla sua fondazione. Ratzinger, nei diversi testi presenti nel volume, affronta queste tematiche offrendo una prospettiva molto chiara e lineare, anche nel mostrare le conseguenze che un tale approccio potrebbe portare alla dinamica di fede del singolo e dell’intera comunità ecclesiale. Dimenticare la presenza viva di Cristo nella sua Chiesa ridurrebbe facilmente l’esperienza di fede a una insignificante esistenza moraleggiante: e questo porterebbe, da un lato, a un adeguamento della vita cristiana a questioni meramente moralistiche, dall’altro, in nome di delicate questioni di natura etica, all’ergersi della Chiesa semplicemente come giudice dei comportamenti individuali e sociali.

Una fede ridotta a esperienza morale porterebbe a una visione orizzontalistica di Chiesa, arrivando addirittura a cogliere nel recupero teologico ed ecclesiologico di una centralità cristologica un inutile «spiritualismo», come se il riferimento trinitario rappresentasse l’iperuranio rispetto a quella concretezza di cui il popolo di Dio sembra oggi avere davvero bisogno. Delle numerose citazioni di Ratzinger che si potrebbero richiamare a tale riguardo, se ne può riportare una, tratta da un testo del 1973, intitolato La Chiesa come luogo di servizio alla fede:

La Chiesa è «forza nella debolezza», un misto di fallimenti umani e misericordia divina. […] Dio è diventato un mendicante e ha solidarizzato a tal punto col figlio perduto da apparire addirittura identico a lui, da essere lui stesso l’altro, il perduto appunto, sul quale incombono tutte le depravazioni della storia.60

In questa brevissima citazione, Joseph Ratzinger mostra, con un linguaggio semplice e con rigore teologico, come il recupero della centralità della presenza di Cristo nella Chiesa nulla tolga al protagonismo antropologico: anzi, ne va a essere il fondamento. Certamente, oggi queste riflessioni possono apparire scontate e non più proponibili, in quanto non sembrano portare al raggiungimento di risultati pastoralmente eclatanti rispetto alle prospettive molto più immediatamente concrete ed efficaci presentate da un approccio sociologico di Chiesa. Interessanti le parole pronunciate da Joseph Ratzinger in una conferenza, tenuta a Monaco nel 1970, in occasione del 75° di attività dell’Unione bavarese cattolica per la protezione delle giovani. Parlando dell’importanza dell’essere laico nella Chiesa, egli ha affermato:

Davanti a un movimento laicale così significativo e sempre esemplare come questo, mi sembra indispensabile dichiarare che la forma in cui oggi viene portata avanti nella Chiesa la cosiddetta riscoperta del laico, va proprio in direzione sbagliata. Per teologia del laicato s’intende oggi sempre più la battaglia per una nuova forma del ministero ecclesiale, cosa che è una vera contraddizione in termini. […] Una teologia del laicato, che viene portata avanti come battaglia per una quota proporzionale nel governo della Chiesa, è una caricatura di se stessa e rimane tale anche se questo fraintendimento viene ammantato con il concetto di una direzione sinodale della Chiesa.61

Si tratta di un testo del 1970 (più di cinquant’anni orsono). La criticità di Ratzinger non è di natura politica, ma unicamente teologica; egli prosegue:

Quando la teologia diventa teoria della politica ecclesiale e lotta per partecipare al governo della Chiesa, la forza d’urto va solo verso l’interno di essa. La Chiesa si occupa soltanto di se stessa e così logora se stessa. […] Ma una Chiesa che correttamente comprende e vive se stessa non guarda se stessa, ma si allontana da sé e opera per gli altri.62

L’attualità di queste parole è sconvolgente. Il ricentramento dell’ecclesiologia su Cristo non rappresenta, dunque, un impoverimento della sua prassi sociale, ma anzi ne è il fondamento e, dunque, la sua fecondità; per questo, scrive sempre Ratzinger in riferimento alla Chiesa, «essa non può scambiare il suo messaggio per un servizio sociale. Però la forza di questo messaggio farà scaturire sempre nuove iniziative sociali».63 È in Cristo che tutto conosce una sua risemantizzazione, non solo come conferimento di un nuovo senso rispetto a ciò che già existe, ma anche come acquisizione di un senso vero già dato, e che Cristo fa emergere in tutta la sua portata. Anche le relazioni tipicamente umane, come l’amicizia, possono divenire in Cristo un «luogo di salvezza». Riferendosi a una frase di san Giovanni Crisostomo, secondo il quale «non c’è nulla al mondo che abbia più valore di una singola anima»,64 Ratzinger spiega:

Quando un uomo, attraverso il suo amore, è riuscito a dare senso a un individuo, a una singola persona, si è guadagnato la sua vita infinitamente […]: c’è stata salvezza in ogni situazione in cui, in un mondo di inimicizia e di estraneità, si è incontrato qualcuno che è uscito dal collettivo ed è stato fratello.65

♦ 2. La contemporaneità di Cristo inverata dall’evento liturgico

Per andare ancora più a fondo nella portata teologica della riflessione di Joseph Ratzinger, è importante comprendere in che modo tale presenza di Cristo sia capace di inverarsi nell’oggi della Chiesa. Si è già visto come essa non possa essere colta in modo statico, come un semplice prolungamento nel tempo e nello spazio de una personalidad originaria, come se si trattasse unicamente di un antenato che continua incessantemente a vivere attraverso la sua discendenza: si tratta, invece, di una presenza dinamica, capace di raggiungere, in modo sempre nuovo, l’uomo e la donna nella loro quotidianità. Si è anche visto che tale presenza si fa raggiungibile (come «via») proprio in quanto si offre costantemente, dandosi, alla sua creatura. E ciò avviene anzitutto attraverso l’evento liturgico. Per approfondire questo particolare «luogo teologico», possiamo rivolgere l’attenzione su come Ratzinger spieghi il rapporto tra Chiesa e liturgia, o meglio, tra autocoscienza ecclesiale ed evento liturgico, che talvolta viene colto in modo alquanto estrinseco.

La liturgia invera la presenza de Cristo, in modo tale che egli stesso continua ad agire nella sua Chiesa, rigenerandola e rinnovandola (o, potremmo anche dire «riformandola») 66 sempre tale «dal di dentro» e «dal di sotto»; recuperando le parole di Ratzinger, la liturgia «non è semplicemente l’applicazione di effetti, bensì la presenza dell’azione di Cristo nella sua Chiesa, è la vita di Cristo che continua, e perciò è il vero centro del cristianesimo».67 In altre parole, nell’evento liturgico si invera quella che potremmo chiamare la contemporaneità di Cristo. Cosa si intende qui per «contemporaneità»? Questo lemma può essere utilizzato non soltanto in riferimento alla sua accezione temporale, ma soprattutto per indicare il ripresentarsi di una realtà in una nuova modalità di presenza, capace di instaurare altrettante nuove forme relazionali. Si tratta, dunque, della ripresentazione di un evento già accaduto. Mentre la «rappresentazione» è un «fare memoria», che indica il compiere, nel presente, un’azione corrispondente all’evento rievocato, la «ripresentazione» esprime un movimento differente: è il ripresentarsi, nella sua radicale novità, di un evento già accaduto: nel caso della representatio Christi, è il rendersi nuovamente presente di Cristo mediante il suo Spirito. La liturgia esprime questo secondo significato attraverso il lemma «memoriale», per indicare appunto l’inveramento, nell’oggi (hodie), di un evento che, nella sua novità, raggiunge l’uomo e la donna, introducendoli nella dinamica dell’evento stesso, proprio nel mentre esso sta accadendo. Non si tratta, dunque, di un’attualizzazione, ma di un ri-accadere. In questo senso, spiega Ratzinger, la Chiesa «è la presenza di Cristo, la nostra contemporaneità con lui, la sua contemporaneità con noi».68 E proprio per questo, secondo Benedetto XVI, la Chiesa – recuperando un’espressione oggi assai valorizzata per esprimere la sua natura missionaria – può dirsi realmente «in uscita», in quanto «la prima parola della Chiesa è Cristo e non se stessa; essa è sana nella misura in cui tutta la sua attenzione è rivolta a lui».69

Queste parole di Ratzinger sono perfettamente sintonizzate all’incipit della Lumen gentium, lì dove la Chiesa, per esprimere la sua natura caratteristica, che la contraddistingue da ogni altra realtà umana, ribadisce che Cristo (e non sé stessa) è la luce delle genti (lumen gentium).70

♦ 3. I carismi e l’universalità della Chiesa

Il cristocentrismo di Ratzinger, appena sottolineato, è evidentemente trinitario, come si può comprendere sia dalla struttura del volume, sia dal modo in cui il nostro autore presenta il tema. Ciò ha delle profonde implicazioni anche sul versante ecclesiologico. E qui si può andare direttamente al «centro» della questione, vale a dire la dimensione carismatica della Chiesa e, nello specifico, la collocazione teologica dei movimenti ecclesiali.

Dopo la riflessione di Joseph Ratzinger su I movimenti e la loro collocazione teologica, si è dovuto aspettare numerosi anni (2016) per vedere l’uscita della lettera della Congregazione per la dottrina della fede Iuvenescit Ecclesia ai vescovi della Chiesa cattolica, sulla relazione tra doni gerarchici e carismatici. Non si tratta di un’esortazione che invita la Chiesa a ringiovanire rispetto ad una situazione di sterilità contemporanea, ma il verbo, all’indicativo presente – «iuvenescit» –, indica un dinamismo reale e quotidiano che sta avvenendo nel momento stesso in cui se ne sta parlando. Questa lettera conferma la co-essenzialità tra doni gerarchici e doni carismatici.71

La bussola argomentativa di questa riflessione è la relazione del cardinale Ratzinger, tenuta in occasione dell’incontro mondiale dei movimenti ecclesiali nel 1998: l’allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede ha legato la natura delle diverse aggregazioni ecclesiali e dei movimenti, espressioni dei doni carismatici, alla dimensione apostolica della Chiesa, e dunque a una delle sue quattro note essenziali. Una caratteristica fondamentale che Ratzinger attribuisce all’apostolicità è la sua tensione universalistica; egli ha affermato:

Gli apostoli erano non vescovi di determinate chiese locali, bensì, appunto, «apostoli» e, in quanto tali, destinati al mondo intero e all’intera Chiesa da costruirvi. […] Quello apostolico è un ministero universale, rivolto all’umanità intera, e pertanto all’intera unica Chiesa.72

Sono passati diversi anni ormai anche dall’uscita della Iuvenescit Ecclesia, che, è bene ricordare, è il frutto di un cammino molto lungo, la cui stesura ha attraversato ben tre pontificati. Eppure, da parte della riflessione teologica c’è stato uno scarso approfondimento di quanto è lì contenuto; vi erano questioni più urgenti da affrontare e, come sempre accade, le cose urgenti finiscono con il porre in secondo piano le cose più importanti. Riguardo a questo silenzio, mi vengono in mente le parole che papa Francesco aveva pronunciato, in una sua meditazione mattutina nella cappella di Santa Marta, il 16 aprile 2013 (proprio nella ricorrenza del compleanno di Benedetto XVI); egli ha affermato:

Il concilio è stato un’opera bella dello Spirito Santo. Ma dopo cinquant’anni, abbiamo fatto tutto quello che ci ha detto lo Spirito Santo nel concilio? In quella continuità della crescita della Chiesa che è stato il concilio? No – aggiunge il papa –. Festeggiamo questo anniversario, facciamo un monumento, ma che non dia fastidio.73

Potremmo riprendere queste parole e applicarle anche all’assimilazione da parte della riflessione teologica di quanto è emerso in questi ultimi decenni a proposito della dimensione carismatica della Chiesa e, in particolare, della collocazione teologica dei movimenti. Ad essi facciamo un monumento, ma che non diano fastidio. Questa poca attenzione teologica alla dimensione carismatica della Chiesa sta avendo delle importanti implicazioni notevoli anche su un mancato approfondimento sul ruolo della donna nella Chiesa, in quanto tutta l’attenzione viene riversata unicamente sulla dimensione sacramentale della Chiesa, per cui il femminile può conoscere una sua valorizzazione unicamente se viene colto in vista dell’ordine sacro. E la dimensione carismatica della Chiesa viene ridotta da un’accezione universale battesimale a un’appartenenza a ordini religiosi o a movimenti ecclesiali.

♦ Conclusioni

Presenza di Cristo, la sua contemporaneità attraverso l’evento liturgico e la dimensione carismatica della Chiesa: questi sono alcuni punti nodali che si possono rintracciare in questo volume dell’Opera omnia di Ratzinger. Eppure, le cose urgenti per la Chiesa di oggi, soprattutto da un punto di vista ecclesiologico, sembrano essere altre, e la letteratura teologica odierna sembra essere attratta e afferrata da tutt’altre questioni che, per tanti aspetti, esulano dall’ambito teologico. Nessuno oggi metterebbe in dubbio la centralità della presenza di Cristo per comprendere la natura della Chiesa ma… che questo non dia fastidio e non sia di intralcio al raggiungimento di altre questioni, molto più urgenti. Nonostante papa Francesco continui incessantemente a ribadire un significato di «processo sinodale» che chiami in causa la presenza di Cristo e l’azione dello Spirito, gli interessi ecclesiologici sembrano davvero andare in altra direzione, entrando in questioni che per loro natura non dovrebbero loro nemmeno competere. Cito ancora Ratzinger:

Mentre, nell’ambito civile, ormai si riscontra molto malcontento rispetto allo Stato costituzionale democratico e dubbi sulla sua modalità di garantire la libertà, in ambito ecclesiale addirittura si assiste ancora a una dogmatizzazione ingenuamente fiduciosa della struttura formale della democrazia. Non pochi ritengono che la Chiesa rimarrà una società autoritaria e arretrata fintantoché non avrà trasformato tutte le sue istituzioni secondo questo modello.74

Sono parole profetiche che dovrebbero fare riflettere su numerosi approcci ecclesiologici attuali che, pur citando inizialmente alcune frasi estrapolate dal pensiero di papa Francesco, arrivano talvolta a proporre (se non a imporre) un nuovo modello di Chiesa. Non è il sistema democratico in sé stesso a rappresentare il fulcro del problema, in quanto in esso si trovano comunque istanze che, debitamente purificate e sanate, possono essere valorizzate anche in ambito ecclesiale; la preoc­cupazione sta in un’assunzione acritica di questo modello, invocato come unica panacea per molti mali odierni della Chiesa.

Quella presenza di Cristo può diventare nuovamente un punto di partenza. Afferma Ratzinger:

Chi scopre Cristo, chi scopre la rete universale dell’amore che egli nell’eucaristia ha lanciato, deve essere lieto e deve a sua volta diventare una persona che sa donare. La fede porta all’amore, e solo mediante l’amore raggiungiamo l’altezza della finestra, lo sguardo sul Dio vivente, il contatto con luce fluttuante dello Spirito Santo.75

Ciò che un ecclesiologo può domandare ogni giorno è quello di essere inserito per grazia in uno sguardo veramente teologico della real­tà, per potersi appassionare in modo sempre nuovo e più profondo alla Chiesa e poter così mostrare ai propri studenti, ancora oggi e tra mille difficoltà, la bellezza di un’appartenenza.


56. G.L. Müller, Prefazione del curatore, in J. Ratzinger, Opera omnia, G.L. Müller (ed.), vol. 8/1: Chiesa: segno tra i popoli. Scritti ecclesiologici e di ecumenismo, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2021, 5-8, qui 5.

57. Müller, Prefazione del curatore, 5.

58. Müller, Prefazione del curatore, 6.

59. A partire dalla riflessione di Severino Dianich, ho già approfondito questo tema in A. Clemenzia, Sul luogo dell’ecclesiologia. Questioni epistemologiche, Roma, Città Nuova, 2018.

60. J. Ratzinger, Kirche als Ort des Dienstes am Glauben, in Id., Dogma und Verkündigung, München, 1973, 255-262; trad. italiana: La Chiesa come luogo di servizio alla fede, in Id., Opera omnia, vol. 8/1, 111-118, qui 112.

61. J. Ratzinger, Die anthopologischen Grundlagen der Bruderliebe, in Id., Dogma und Verkündigung, 239-253, trad. italiana: Le basi antropologiche dell’amore fraterno, in Id., Opera omnia, vol. 8/1, 92-107, qui 100.

62. Ratzinger, Le basi antropologiche dell’amore fraterno, 100.

63. Ratzinger, Le basi antropologiche dell’amore fraterno, 101.

64. Ratzinger, Le basi antropologiche dell’amore fraterno, 104.

65. Ratzinger, Le basi antropologiche dell’amore fraterno, 105.

66. Cf. A. Clemenzia, La vera «ri-forma» della Chiesa. Il contributo di Joseph Ratzinger, in A. Clemenzia – R. Regoli (ed.), Ratzinger e la Chiesa. Approcci di ricerca, Firenze, Nerbini, 2023, 35-45.

67. J. Ratzinger, Kirche und Liturgie, in Mitteilungen Institut Papst Benedikt 1 (2008), 11-27; trad. italiana: Chiesa e liturgia, in Id., Opera omnia, vol. 8/1, 153-177, qui 164.

68. J. Ratzinger, Die Ekklesiologie des Zweiten Vatikanischen Konzils, in Kirche, Őkumene und Politik, Einsiedeln 1987, 13-27; trad. italiana: L’ecclesiologia del Concilio Vaticano II, in Id., Opera omnia, vol. 8/1, 272-301, qui 274.

69. Ratzinger, L’ecclesiologia del Concilio Vaticano II, 274.

70. Afferma Paolo VI: «Dunque: Cristo è la sorgente della luce; è la luce. […] Da ciò quest’altro fatto: la Chiesa riverbera la luce di Cristo sul mondo» (Paolo VI, Angelus, 22 giugno 1966, in https://www.vatican.va/content/paul-vi/it/audiences/1966/documents/hf_p-vi_aud_19660622.html).

71. Cf. A. Clemenzia, Il profilo carismatico della Chiesa. Una lettura teo-logica della Iuvenescit Ecclesia, in Sophia 2 (2019), 203-219.

72. J. Ratzinger, Die Kirchlichen Bewegungen und ihr theologischer Ort. Erőffnungsreferat beim Kongress der neuen Geistlichen Gemeinschaften in Rom, 27. Mai 1998; trad. italiana: I movimenti ecclesiali e la loro collocazione teologica, in Id., Opera omnia, vol. 8/1, 398-431, qui 409-410.

73. Francesco, Meditazione mattutina nella cappella della Domus Sanctae Marthae, 16 aprile 2013, in https://www.vatican.va/content/francesco/it/cotidie/2013/documents/papa-francesco-cotidie_20130416_spirito.html

74. J. Ratzinger, Freiheit und Bindung in der Kirche, in Kirche, Őkumene und Politik, 165-182; trad. italiana: Libertà e vincoli nella Chiesa, in Id., Opera omnia, vol. 8/1, 474-497, qui 486.

75. J. Ratzinger, «Vorsitz in der Liebe». Der Cathedra-Altar von St. Peter zu Rom, in Id., Bilder der Hoffnung, Freiburg 1997, 39-45; trad. italiana: «Primato nell’amore». L’altare della cattedra di san Pietro a Roma, in Id., Opera omnia, vol. 8/1, 785-790, qui 789.

 

 


Abstract:

The three contributions present Ratzingerian thought linear and coherent in its development and outcomes. In Ratzinger’s ecclesiology, the Church is valued as a unicum, irreducible to a mere socio-political categories, a path directed more to the search for God than to the search for human practices. Ratzinger believed he had to assure the Church of his service as a theologian through study and teaching, between tradition and innovation. The Church needs theology and thought, but also a sense of history, and in this retracing of the itinerary of theological thought lies the method, perspective and content to respond to today’s challenges. What makes theology “alive” is the presence of Christ.

Keywords ♦ Benedict XVI, Pope (1927-2022)

 

Citazione:

R. Regoli – A. Riccardi – A. Clemenzia, Forum. J. Ratzinger, Opera omnia, vol. 8/1: Chiesa: segno tra i popoli, LEV, 2021, in Fidei Communio 1/1 (2025), 149-181

DOI: 10.12875/FC251006